Quando manca l’obiettivo: da “complesso” a “complicato”.


"Definire quale sia il livello più idoneo ad essere assunto come riferimento richiede innanzitutto avere ben chiaro quale è l'obiettivo da realizzare. Sembra facile, eppure non sempre la meta appare nitida all'orizzonte".  


Già qui e qui si è argomentato, in vario modo, sul rapporto tra la complessità di un evento critico e l'elaborazione della scelta strategica più idonea a comprenderlo, gestirlo, risolverlo.

Si tratta di un tema che la drammatica attualità impedisce di mettere da parte. Comprendere ciò che, oggi, sta accadendo alle porte di casa nostra implica allargare lo sguardo su vari aspetti del fenomeno per individuarne tutti i livelli (umanitario, etico, politico, geopolitico, economico, culturale, psicologico, mediatico) e definire, così, a quale, tra questi, ci si vuole condurre per discuterlo e a quale livello, poi, ci si dovrebbe riferire, qualora se ne avesse il potere, per elaborare una strategia di uscita. Pensare che la riflessione, la discussione, la soluzione siano possibili mediante una semplificazione, ovvero riducendo la complessità ad una sola ed unica dimensione - semmai quella più immediatamente accessibile all'intelletto e che meno solleciti emotività negativa - è sbagliato. È sbagliato perché è pericoloso. La semplificazione, così intesa, non risolve  il problema: lo amplifica. Lo complica. Lo rende pressoché irrisolvibile. Perché, è sempre bene ricordarlo, "semplice" non è sempre sinonimo di "giusto/vero". E "complesso", a sua volta, non è la stessa cosa di "complicato". 

Definire quale sia il livello più idoneo ad essere assunto come riferimento richiede innanzitutto avere ben chiaro qual è l'obiettivo da realizzare: non sempre la meta appare nitida, all'orizzonte. 

Se non si definisce l'obiettivo, è pressoché impossibile determinare il livello a cui condurre prospettive, linguaggi, strumenti materiali e immateriali per comprendere la questione e, poi, risolverla. La faccenda, così, dall'essere complessa, si traduce in complicata.


-E in azienda?

In azienda, il manager deve comprendere, gestire e sciogliere criticità certamente significative ma, per fortuna, non drammatiche quali una crisi internazionale. Comunque sia, il confronto con la complessità resta parte integrante della quotidiana gestione d'impresa.

Come in qualsiasi settore della vita, anche in azienda ogni fatto, per quanto poco significativo possa essere, si presenta a più livelli: uno emotivo, uno etico, poi un livello logico (il puro dato), un altro strategico. Ancora: un livello relazionale interno e uno esterno, senza dimenticare il livello economico e quello strutturale.

L'evento critico può essere, ad esempio, un calo di performance, o una procedura innovativa da introdurre nella routine aziendale oppure la revisione delle strategie di recruiting o di marketing, o di vendita.

In queste circostanze il management deve decidere, rapidamente, a quale livello intervenire senza per questo svalutare gli effetti possibili sugli altri livelli. In tal  senso, allora, è lecito parlare di azione concreta, rapida, efficace. In questo senso è legittimo parlare di semplificazione. 

Se ne deduce che semplificare non è sempre agevole: la scelta del livello non è casuale, non avviene sulla base di preferenze o di attitudini ma dipende, come accennato, dall'obiettivo che si vuole raggiungere. Quindi, la premessa ad una semplificazione virtuosa è definire l'obiettivo.

Ciò, tuttavia, richiede che si sia in possesso della prospettiva di un futuro possibile. Da intendere, però, non solo come "sguardo lungo", come attitudine a progettare, a guardare oltre, a "crederci", bensì come vera e propria dimensione esistenziale. Come scenario possibile in cui collocare progetti prima ancora di pensarli.

Parliamo della condizione emotiva e cognitiva in cui ci si sente autorizzati a dire e a dirsi "Io (la mia azienda) ci sarò (ci sarà)", senza che ci sia bisogno di specificare una dimensione temporale: Io (la mia azienda) ci sarò (ci sarà). Punto.


Certo, oggi gli eventi non agevolano tale atteggiamento mentale. Non lo agevolano in un manager come in qualsiasi altro individuo, al di là del ruolo svolto in società. Eppure  proprio questo significa, oggi, dotarsi di una mentalità vincente: gestire la complessità esterna e favorire, contemporaneamente, il dialogo interno tra la tendenza alla rinuncia, dunque ad appiattirsi sul presente, e il diritto (e la voglia) di andare oltre.

Non è una questione di ottimismo e di speranza.

È una questione di coraggio e consapevolezza.

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