Fino a che punto, in azienda (e non solo) conviene semplificare?


Alfonso Falanga, 2 aprile 2022.


"In tal modo la comunicazione sta progressivamente perdendo la sua missione autentica e si sta snaturando rispetto alla sua stessa etimologia: dal "mettere in comune", "condividere", "donare" si trasforma in strumento per sottrarre, dividere, escludere".


L'attualità è caratterizzata da una costante, esasperata ed esasperante osservazione degli eventi basata sul principio dell'"io ho ragione e tu hai torto".

Questa tendenza alla ricerca a tutti i costi del bianco e del nero, dei buoni e dei cattivi, di cosa è giusto e di cosa è sbagliato, si è trasferita - attraverso un processo mediatico/culturale/linguistico lento ma inarrestabile- dal litigio nei talk show televisivi in dimensioni che interessano molto da vicino la qualità della nostra vita e, a volte - lo stiamo vivendo proprio in questi giorni-, la nostra stessa sopravvivenza.

L'intera faccenda si riassume nel conflitto tra semplice e complesso: il primo termine è diventato sinonimo di giusto, di vero, di "ho ragione io". Complessità, a sua volta, è l'equivalente di sbagliato, falso, "tu hai torto". Chi semplifica è sempre dalla parte della ragione. È nel giusto a prescindere. Chi afferma la complessità di un evento, invece, sta sempre sbagliando. È nel torto a prescindere.

In tal modo la comunicazione sta progressivamente perdendo la sua missione autentica e si sta snaturando rispetto alla sua stessa etimologia: dal "mettere in comune", "condividere", "donare" si trasforma in strumento per sottrarre, dividere, escludere.

Le ragioni di questa modalità di interpretare il mondo sono molteplici: i media tecnologici, per dirne una, hanno generato una contrazione linguistica e una riduzione dei tempi di attenzione che, a loro volta, hanno ridotto sempre più lo spazio concesso all'approfondimento (tranne se si tratti di una partita di calcio o del perché i Måneskin abbiano avuto tanto successo in così poco tempo) (il paradosso è che più cala la portata culturale/sociale/politica/economica e più si è disposti a discuterne, a comprenderne origini e destinazioni. E viceversa).

La centralità dell'informazione e la profusione dei mezzi attraverso cui essa si diffonde, poi, hanno prodotto l'illusione che informarsi basti a conoscere.

Inoltre la fine delle grandi narrazioni, o avvento del post-moderno che dir si voglia, ha amplificato l'annosa questione della pratica che batte la teoria. Dove pratica e sinonimo di semplice e, pertanto, di vero. E dove teoria è complicato (ecco qui un'altra distorsione nodo: l'assimilazione di complesso a complicato), dunque sbagliato oppure inutile. 


"Eppure, che piaccia o no, che ci si creda oppure no, la complessità resta. Non la si elimina con una battuta né con un giudizio spocchioso".


Tralasciando come ciò che è complesso solleciti le nostre emozioni profonde, quelle che ci mettono a nudo nei nostri stessi confronti, e il semplice invece si limiti a suscitare stati d'animo immediati e di breve durata, leggeri e condivisibili, che appagano la nostra coscienza e placano i nostri sensi di colpa. Quei sentimenti (o sentimentalismi) che ci fanno sentire coinvolti e buoni senza che ci sia bisogno di esserlo veramente.

Eppure, che piaccia o no, che ci si creda oppure no, la complessità resta. Non la si elimina con una battuta né con un giudizio spocchioso. Al di là di quel che pensiamo e desideriamo ogni evento presenta molteplici livelli e può essere osservato e discusso a più livelli. Qualsiasi sia la sua natura. Anche decidere tra amici se andare a farsi una pizza oppure al cinema può essere argomentato a più livelli:

1. quello economico: quale delle due scelte è la più costosa?

2. quello temporale: ci vuole più tempo a ordinare una pizza, aspettare che la portino e mangiarla o ad assistere a un film?

3. i gusti: chi è che preferisce un ambiente dove ci si possa scambiare quattro chiacchiere e chi, invece, gradisce un luogo in cui non è vietato parlare ma la buona educazione invita al silenzio per un'ora e mezzo/due ore?

Si potrebbe continuare (mettiamo da parte distanziamento, mascherine, green pass e limiti vari).

Ecco un esempio di complessità. E ci stiamo riferendo ad una banale uscita del sabato sera. Figuriamoci quando si alza la posta: da cinema/pizzeria si passa a questioni di ordine sociale, politico, economico. Geopolitico.

Mentre la semplificazione, nel primo caso, può addirittura essere funzionale ("Chi è che sta a dieta?", domanda assertivo il leader del gruppo. "Nessuno", risposta corale. "Allora pizza!", sentenzia il leader. Oppure "Giacomo e Anna vogliono dimagrire" è a risposta. "Allora cinema!". Poi si riprenderà a discutere quale film scegliere ... vabbè, il leader saprà risolvere); negli altri casi volere a tutti i costi semplificare può essere oltremodo dannoso. Pericoloso.



"Ogni interrogativo pone una questione che si riferisce alla gestione, da parte di ognuna delle figure citate e anche di quelle non citate, dell'incontro/scontro tra la dimensione personale e quella professionale. È questo uno dei livelli, forse il principale, a cui si ripresenta il nodo semplice-complesso ..."


E in azienda? Cosa significa, in questo scenario, semplificare o essere complessi?

A un livello macro, sappiamo che la storia del pensiero organizzativo, da cui derivano le strategie di gestione aziendale, è stata attraversata da molteplici momenti di confronto tra semplice e complesso. Il passaggio dal taylorismo al concetto di human resources, ad esempio, ha costituito l'esito del comprendere come l'individuo, in azienda, si presenti anche ad altri livelli oltre a quello esclusivamente economico, e come le sue doti non si limitino alla sola capacità riproduttiva di un gesto.

Così come oggi, almeno in una certa misura, si sta realizzando che in professionista non è fatto di sola motivazione bensì presenti altre istanze, non ultima quella di dotarsi di metodi di lavoro più coerenti con i nuovi scenari sociali ed economici.

Cosa accade, o può accadere, a livello micro, ossia quando è in ballo la singola impresa? Volendo restare nell'ambito delle prospettive, ad esempio un venditore come percepisce il cliente? E il leader, come vive e sente il gruppo? Il manager, a sua volta, come avverte collaboratori e dipendenti?

Ogni interrogativo pone una questione che si riferisce alla gestione, da parte di ognuna delle figure citate, dell'incontro/scontro tra la dimensione personale e quella professionale. È questo uno dei livelli, forse il principale, a cui si ripresenta il nodo semplice-complesso: nel momento che il venditore, ad esempio, semplifica la sua percezione del cliente ritenendolo un avversario da sconfiggere - dunque si posizione esclusivamente nella dimensione personale (emotività, pregiudizi, retaggi di esperienze passate) - probabilmente adotterà strategie contestative, spesso sterili sotto l'aspetto dei risultati (a volte, però, fortemente appaganti in merito alle emozioni), in alcuni casi anche produttive ma logoranti, alla fine demotivanti nonostante il risultato.

Spostarsi sul piano professionale richiederà a quello stesso venditore un impegno che si traduce nella gestione della complessità: si tratterà di fare incontrare l'esperienza con l'attualità, l'emotività con le condizioni di mercato, l'automatismo caratteriale (interno) con un metodo appreso (esterno).

Un discorso analogo vale, come accennato, per ogni altra figura professionale.

In sintesi, gestire la complessità significa accordare le istanze di cui ogni livello è portatore. Per livelli intendiamo carattere, ruolo, esperienze pregresse, motivi personali, obiettivi privati e obiettivi collettivi. La complessità va prima gestita in se stessi, per poi essere gestita negli altri.

Gestire la complessità, per elaborare la strategia più idonea a collegare passato, attualità  e futuro.

In azienda, oggi più che mai.

In tutti gli altri contesti, sempre.

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