Alfonso Falanga - 13/02/2021

"Perché, allora, è così complicato riconoscere i propri ed altrui confini di competenza e rispettarli? Perché a volte ci si impegna tanto a fare quello che spetta fare ad altri e, in questo, ci si allontana dai propri ambiti di intervento?".

Perché è così difficile rispettare i ruoli? Il mito del "metterci la faccia".


I tempi di crisi sono caratterizzati, tra le altre cose, da una confusione di ruoli. Questa, a sua volta, diventa benzina sul fuoco: ingarbuglia ancor di più i nodi che caratterizzano la crisi stessa. Senza trascurare che, in alcuni casi, i problemi nascono proprio dal non rispettare i compiti e gli obiettivi connessi alla posizione che si occupa all'interno della scala gerarchica. Capita che le difficoltà, invece di condurre a definire con accuratezza gli ambiti in cui è lecito agire, spingano ad oltrepassare quei confini. In società, in azienda, in famiglia.

Sono vari i micro e macro scenari in cui tale dinamica si concretizza: accade a livello sociale quando, ad esempio, la politica demanda all'economia o alla scienza le decisioni in merito non solo il cosa fare per il bene comune (oltre a lasciare ad esse la definizione stessa di bene comune) ma anche il come, quando e perché farlo. Definizioni che, invece, spetterebbero esclusivamente al politico.

Così come in famiglia, a volte, i problemi sorgono nel momento che il genitore pensa che, per risultare un buon padre o una madre amorevole, si debba essere amici dei figli.

Dinamiche della stessa natura si realizzano anche in azienda.

In alcune circostanze, ad esempio, le criticità si manifestano quando il management assume, nei confronti di collaboratori e dipendenti, atteggiamenti genitoriali e ciò con il risultato di trasferire i rapporti interaziendali dalla dimensione professionale, quella ad essi consona e naturale, a quella personale. Con quanto ne consegue in termini di efficacia e di efficienza della rete normativa su cui poggiano, o dovrebbero poggiare, il processo produttivo e il modello organizzativo dell'azienda stessa.

Questo nulla toglie al valore che deve essere dato, all'interno dell'impresa, alla persona, al rispetto della sua dignità e della sua tenuta fisica e mentale. Qui ci stiamo riferendo a ruoli e a comportamenti, non ai caratteri, ai sentimenti, alle emozioni.


Perché, allora, è così complicato riconoscere i propri ed altrui confini di competenza e rispettarli? Perché a volte ci si impegna tanto a fare quello che spetta fare ad altri e, in questo, ci si allontana dai propri ambiti di intervento?

Una risposta è nella convinzione che, in alcuni casi, orienta le scelte e i comportamenti del management aziendale nonché le sue aspettative nei riguardi dei collaboratori e del personale in genere: in base a tale convincimento i problemi si risolvono mettendosi in gioco, mettendoci la faccia, dunque facendo leva sulle doti caratteriali proprie e altrui. L'elenco va dall'intraprendenza allo spirito combattivo, dalla disponibilità al cambiamento alla motivazione (la solita e onnipresente motivazione). Qualità certamente rilevanti anche se si traducono in limiti quando offuscano il valore che, specialmente in occasione di turbolenze, deve essere attribuito a metodo, strategia, apprendimento, competenze, conoscenze. Dunque, in sintesi, ai ruoli.

Il momento di crisi è l'occasione in cui la squadra deve assumere ancor di più forme, contenuti e metodi da squadra e ciò invece che essere gruppo, fare gruppo, come si dice di solito. Certo, va rivisto semmai come si svolge il proprio compito, vanno riesaminati strumenti e strategie: ma non i confini di ruolo. Ogni cambiamento deve avvenire all'interno dell'ambito di competenze. Se poi risolvere l'impasse richiede un cambiamento di ruolo allora tale il processo deve risultare chiaro e trasparente, coerente e funzionale a risolvere.



Nelle circostanze critiche può verificarsi, invece, che il management si disponga a mettersi in gioco e a esortare lo staff a fare altrettanto (non sempre delineando adeguatamente cosa si intenda con questa formula ormai vetusta), si rimbocchi le maniche e non solo metaforicamente, dichiari con convinzione "sono uno di voi" e "siamo sulla stessa barca": il che va bene se il timoniere continua a fare il timoniere e il prodiere a fare il prodiere.

La soluzione al dilemma, dunque, viene considerata come l'esito del vedere le cose tutti allo stesso modo, del muoversi tutti nella stessa direzione, nel fare fronte comune contro quelle che vengono intese le origini del problema: o, più semplicisticamente, la soluzione si esaurisce nell'assumere tutti la medesima prospettiva.

Tale confusione di vedute e di comportamenti non ha nulla a che vedere con la capacità di assumere punti di vista alternativi allo standard, quando serve.

In alcune circostanze, poi, l'uscita dal ruolo è l'esito dell'incapacità di tollerare lo stress derivante da un effettivo cambiamento. Metterci la faccia e rimboccarsi le maniche diventano espedienti, poco impegnativi dal momento che non obbligano a svincolarsi dalle proprie zone di comfort (in effetti, sono slogan che esortano a fare di più e meglio sempre la stessa cosa) per rinviare il momento in cui dovrà essere assunta la decisione effettiva, quella che spesso implica l'abbandono della routine quotidiana, delle convinzioni su cui poggiava fino a quel momento l'esercizio del management, insomma dei comportamenti standard.

Il metterci la faccia, dunque, paradossalmente, come rinvio..


In questa epoca così complicata ci siamo accorti che la volontà è importante se è sostenuta da strumenti materiali e immateriali. Le conoscenze, le competenze, la capacità di definire il problema, senza distorsioni dovute a pregiudizi o a desideri, sono di fondamentale importanza.

In quest'epoca così complicata abbiamo imparato, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, che a volte la soluzione - se non è supportata da un'analisi di realtà fondata sulla competenza e non sulla speranza - è peggio del problema: diventa essa stessa il vero problema.

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