Metterla sul personale: quali rischi, per il professionista.

Alfonso Falanga, 26.08.2021

"Quando prevale l'insistenza si afferma, inevitabilmente, la personalizzazione del lavoro: in tal caso è forte il rischio di sbagliare di più e meglio. Ci si mette, infatti, più energia (semmai dopo aver ingurgitato un paio di video motivazionali) nel riproporre la stessa cosa, cioè proprio quel comportamento che ha portato all'insuccesso, si insiste così nell'assumere sempre lo stesso atteggiamento verso il cliente e ciò nella speranza che accada qualcosa di diverso". 


Nella mia attività di formatore accade, a volte, che alcuni venditori, una volta concluso il lavoro in aula, mi chiamino in disparte per rivolgermi una indiretta richiesta di aiuto. La formula di rito è: "Questa settimana mi sono bloccato/a e non so perché".

In alcun occasioni aggiungono "La settimana scorsa tutto bene e in questa, invece, ancora non ho chiuso un contratto" oppure "Il mese scorso è andato alla grande e questo, invece, è cominciato male e finirà peggio, lo sento".

Il tutto siglato con l'espressione "Eppure ci metto l'impegno e la volontà di sempre" (non c'è da dubitarne).

A quel punto chiedo: "Ci sono modifiche nell'offerta al cliente?". Ovviamente la risposta è no, altrimenti il nodo sarebbe già bello e risolto, anzi non ci sarebbe alcun nodo.

Continuo: "È cambiata la tipologia di cliente di riferimento?". No, certamente.

Insisto, pur sapendo che non si tratta di questo: "Problemi tecnici?". Nemmeno.

In queste circostanze, quando cioè il blocco non è imputabile a fattori esterni o comunque immediatamente individuabili, non resta che favorire nell'interessato una riflessione sui metodi e le strategie adottate ai fini della trattativa con il cliente.

Tutto a posto, problema risolto, verrebbe da dire. Così non è.

Il venditore, infatti, quando vive questi blocchi, per lo più chiama in causa, come per una sorta di automatismo, la dimensione personale: con tale denominazione sintetizziamo motivi, motivazione, carattere, attitudini. Il che conduce o alla rinuncia ("Questo lavoro non fa per me") oppure all'insistenza ("Devo crederci di più", "Devo essere più motivato", "Devo metterci più impegno")


Quando prevale l'insistenza si afferma, inevitabilmente, la personalizzazione del lavoro: in tal caso è forte il rischio di sbagliare di più e meglio. Ci si mette, infatti, più energia (semmai dopo aver ingurgitato un paio di video motivazionali) nel riproporre la stessa cosa, cioè proprio quel comportamento che ha portato all'insuccesso, si insiste così nell'assumere sempre lo stesso atteggiamento verso il cliente e ciò nella speranza che accada qualcosa di diverso. Si ripropone con maggiore convinzione e "bravura" l'errore sperando che la reiterazione, da sola, basti a modificare gli esiti indesiderati.

Ovviamente non accade nulla di tutto ciò: non è nemmeno vero, tra l'altro, che facendo la stessa cosa si ottiene lo stesso risultato. Magari. È vero, invece, che si ottengono effetti progressivamente peggiori. Con ciò che ne consegue in termini di frustrazione e di calo di autostima. E di risultati.

Questo orientamento è causa-effetto della netta svalutazione, da parte del venditore, della dimensione professionale, ossia l'insieme di variabili che costituiscono il contesto socio-economico in cui viene svolta effettivamente l'attività di vendita. Il riferimento va essenzialmente a tre elementi:

  • le dinamiche di mercato;
  • la tipologia di cliente di riferimento;
  • caratteristiche e qualità del servizio proposto al cliente.

È proprio il contesto a determinare quali strategie e quali metodi il venditore deve adottare. In quest'ottica essere un professionista non significa soltanto lavorare con impegno, essere competente, crederci. Significa, oltre a questo, assumere un ruolo coerente con il contesto, ossia un ruolo professionale. Tale è l'insieme dei comportamenti messi in atto in quello specifico scenario micro-economico e che poggiano sulla consapevolezza del contesto.

Questo non significa che motivi, motivazione, carattere, attitudini, ovvero il personale, non conti, anzi. Il fatto è che, specialmente in situazioni di crisi, l'attenzione degli interessati si sposta subito da "ciò che serve" a "ciò che non serve". Ciò che serve è rivedere metodi e strategie. Ciò che non serve è farsi il processo, ossia farne una questione di autostima, di carattere, di volontà. Quasi come se il farsene una colpa attenuasse il peso, materiale e immateriale, dell'insuccesso.

Certo, una fase di impasse può verificarsi anche se si è ben calati nella dimensione professionale, ovvero se si è attenti a metodi e strategie, se si è consapevoli-dunque-del contesto.

Il fatto è che, nel primo caso, quel blocco diventa difficile da risolvere dal momento che prevede un intervento sulla propria persona: si chiamano in causa, come già accennato, carattere, abitudini, emotività. Insomma si fanno i conti con la propria storia personale. Chi è disposto a mettersi in discussione così radicalmente, per portare a casa un contratto?

Nel secondo caso, invece, il blocco, per quanto consistente possa essere, è affrontabile e risolvibile attraverso un intervento di revisione del metodo e delle strategie adottate. Certo, la dimensione professionale non è immune da influenze emotive, caratteriali, etiche. Resta però pur sempre uno scenario in cui la variabile principale è un "semplice" strumento, il cui uso è condizionato quanto si vuole dal carattere ma resta pur sempre una sorta di abito che si indossa per lavoro e del quale ci si libera, dopo il lavoro.

Dunque, nel primo caso, il blocco si traduce in un circolo vizioso, dal momento che la sua irrisolvibilità produce un calo di autostima che a sua volta fa da carburante al blocco stesso.

In una prospettiva personale, perciò, il soggetto è portato a chiedersi "Perché non ho funzionato?".

In un'ottica professionale, invece, la domanda utile è "Cosa non ha funzionato?".

A metterla sul personale, insomma, c'è tutto da perdere e niente da guadagnare.

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