Cosa serve a una squadra per funzionare.

Alfonso Falanga, 21 giugno 2022.

"La consapevolezza consente di tradurre in metodo - dunque di rendere riproponibili, verificabili ed eventualmente modificabili - le procedure adottate quando si centra il bersaglio. Allo stesso tempo, dà modo di intervenire quando si è lontani dal bersaglio e di adottare gli opportuni aggiustamenti. O veri e propri cambiamenti".


Le accelerazioni a cui sono oggi sottoposte le aziende costringono chi occupa posizioni direttive a scelte che raramente prevedono una seconda chance. Ovvero, scelte i cui margini di errore devono, per forza di cose, essere  fortemente ridotti.

Ridurre i margini di errore implica , per quel che qui ci riguarda, essere costantemente consapevoli ed esserlo sia quando si ha successo che quando si fallisce.

La consapevolezza consente di tradurre in metodo - dunque di rendere riproponibili, verificabili ed eventualmente modificabili - le procedure adottate quando si centra il bersaglio. Allo stesso tempo, dà modo di intervenire quando si è lontani dal bersaglio e di mettere in atto gli opportuni aggiustamenti. O veri e propri cambiamenti.

Le domande, a questo punto, sono:

1. che significa consapevolezza?

2. consapevolezza di cosa?

3. come si declina, in pratica, l'essere consapevoli?

Per rispondere, cominciamo con una precisazione: consapevolezza, qui, non significa semplicemente avere ben chiaro quale obiettivo si vuole raggiungere e quali sono le risorse, materiali e immateriali, di cui si dispone al riguardo. 

Consapevolezza non è (non solo è) sapere qual è la meta e se essa sia legittima. Significa anche definire le premesse da cui avrà origine il percorso da intraprendere per centrare il bersaglio: anzi è proprio la trasparenza dei presupposti che rende possibile acquisire chiarezza in merito a obiettivo, procedure e risorse.


A volte, in azienda, aleggiano nell'aria affermazioni che, con il passare del tempo ( basta poco tempo, pochissimo tempo), acquisiscono la forza di vere e proprie convinzioni debilitanti, quali ad esempio:

  • i clienti sono saturi di informazioni;
  • i clienti sono stanchi di ricevere proposte commerciali;
  • il mercato è cambiato;
  • c'è crisi;
  • è impossibile, oggi, programmare;
  • nessuno vuole più lavorare;
  • non si trova personale

e via di questo passo.

Si tratta di affermazioni che spesso conducono a discussioni lunghe, logoranti e improduttive. Discussioni durante le quali, piuttosto che elaborare strategie di gestione del dilemma, si punta a stabilire se sia vero o meno il dilemma stesso.

In questi casi si producono due fazioni: quella di chi sostiene che l'affermazione non sia aderente alla realtà e che, dunque, costituisca solo un alibi a copertura di carenze strategiche/attitudinali.

Dall'altro, invece, c'è chi dichiara la coerenza dell'affermazione, ovvero ritiene che essa esprima un dato di fatto indiscutibile e inevitabile. Con ciò che ne consegue in termini di scelte strategiche e di frustrazione.

Tra i due estremi ci sono poi coloro che non si pongono alcun interrogativo e vanno avanti per inerzia. Quelli che, con rassegnazione, si affidano alla fortuna.

Di fatto, le affermazioni di cui si discute sottendono un fondo di realtà (è vero che i clienti sono saturi di informazioni, è vero che sono stanchi di ricevere proposte commerciali, ecc.) e, dunque, non sono alibi di per sé bensì lo diventano - o meno- in base alla posizione in cui le si colloca. Ovvero, in base al posto che a loro si assegna nella prospettiva che si ha del proprio ruolo e dei propri compiti. 


La domanda, perciò, non è se è vero oppure no che c'è crisi, che il mercato cambia velocemente rendendo difficile programmare, ecc.

Le domande da fare e da farsi, invece, sono: come si interpretano queste affermazioni? Come si vogliono utilizzare? Sono considerate punti di arrivo, insomma una sorta di destino inesorabile su cui andrà ad infrangersi qualsiasi strategia, anche la più ... strategica? Oppure sono premesse a tecniche, procedure, metodi da elaborare e adottare per realizzare l'obiettivo nonostante che il cliente sia saturo di informazione, che il mercato cambi repentinamente, ecc.?

Si tratta di domande che richiedono consapevolezza e che, allo stesso tempo, favoriscono consapevolezza.

La prima ipotesi sottende, come accennato, un destino ineluttabile e, dunque, l'affermazione si trasforma automaticamente in alibi: se c'è crisi, non è colpa mia se non vendo; non si trova più personale, quindi non è colpa mia se le procedure di recruiting non danno risultati; ecc.

Alla medesima affermazione si può assegnare, invece, il ruolo di premessa. Ovvero: dal momento che c'è crisi allora ... (sarò più attento, più strategico, ecc.), siccome la ricerca del personale è più complicata che in passato rivaluterò le strategie di recruiting, i modelli remunerativi, ecc.

In tal caso, perciò, l'affermazione, sempre quella, viene collocata all'origine delle scelte strategiche e del processo produttivo. Non viene negata, svalutata, ignorata. Anzi. E' essa stessa il propulsore di un cambiamento di prospettiva e, dunque, di strategia.

Questa seconda prospettiva implica inevitabilmente che si abbandonino le proprie zone di comfort per aprirsi a scenari diversi rispetto al passato. Le discussioni sterili e logoranti, spesso, hanno lo scopo indiretto (a volte, non tanto indiretto) proprio di ritardare il cambiamento, o di ovviarvi del tutto.

A volte, al singolo come al collettivo, per funzionare basta cambiare l'ordine dei fattori. E il prodotto cambia, eccome se cambia. 

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