Il selezionatore

Alfonso Falanga, 15. 01. 2022

Ci si abitua presto al potere che si ha sulle persone: diventano sempre più frequenti i momenti in cui devo trattenere uno sbadiglio. Come diceva qualcuno, il potere logora chi non ce l'ha. Ma annoia, dopo un po', chi ce l'ha, aggiungo io.
Ci si abitua presto al potere che si ha sulle persone: diventano sempre più frequenti i momenti in cui devo trattenere uno sbadiglio. Come diceva qualcuno, il potere logora chi non ce l'ha. Ma annoia, dopo un po', chi ce l'ha, aggiungo io.


Io so fare molto bene il mio lavoro.

Me lo dicono in tanti. Sono stimato, apprezzato, ben pagato. Rappresento il classico professionista serio e competente.

Il mio lavoro mi piace. Mi fa sentire importante. Di fatto, sono importante.

Io osservo e ascolto chi mi sta di fronte mentre prova a spiegare che sa fare, cosa ha fatto e cosa vorrebbe fare. In pratica, sono un selezionatore. Come si dice in termini tecnici, un recruiter.

In buona sostanza, sono una specie di investigatore che ha il compito di fare emergere in quelle narrazioni, se non proprio la menzogna (anche se non sono pochi quelli che dicono che sanno fare qualcosa senza avere la minima idea di cosa si tratti), almeno le incongruenze, le imperfezioni, le note stonate.

Ascolto, osservo, penso: poi decido.

Non nascondo che a volte mi capita di annoiarmi: i candidati, per lo più, ripetono sempre gli stessi ritornelli: "Di me ci si può fidare", "Amo il mio lavoro", "Sono la persona giusta per questa azienda" e via di questo passo.

Ci si abitua presto al potere che si ha sulle persone: diventano sempre più frequenti i momenti in cui devo trattenere uno sbadiglio. Come diceva qualcuno, il potere logora chi non ce l'ha. Ma annoia, dopo un po', chi ce l'ha, aggiungo io.


Oggi, però, è diverso. Per la prima volta mi sento io sotto esame. Succede quando mi si siede di fronte un tipetto con occhiali, la testa coperta da un ammasso di capelli rossicci e mal curati, che ha le labbra sempre un po' aperte, come se avesse difficoltà a respirare attraverso il naso.

Con gesti lenti e precisi, prende posto dall'altro lato della scrivania. Si presenta: "Ivano Scoscesi", poi zitto, guardandomi fisso, in attesa della mia reazione.

Resto spiazzato. Generalmente sono io che sto in silenzio, dopo i saluti rituali, in attesa di valutare come il candidato rompa il ghiaccio.

"Allora, come mai è qui?", chiedo, poco convinto.

"Per lo stesso motivo per cui anche lei è qui", mi risponde con tono sicuro, del tutto incoerente rispetto ai capelli rossicci e arruffati, agli occhiali dalle lenti alquanto spesse, alle labbra un tantino pendule.

"Mi sembra improbabile. I nostri ruoli sono ben diversi", replico, incerto. Non capisco dove voglia andare a parare con questa affermazione che evoca una parità, tra me e lui, del tutto inesistente.

"Veramente mi riferivo ai motivi, non ai ruoli", ribatte a sua volta, sorridendo e ostentando un senso di superiorità.

"Di quali motivi parla?", gli chiedo, rendendomi conto che adesso sono io l'indagato.

"Lei è qui per dimostrare qualcosa a se stesso. E anch'io", replica, soddisfatto.

"Mi legge nel pensiero?", gli chiedo, con un falso sorriso che non basta a nascondere il mio imbarazzo.



"Mi parli delle sue passate esperienze professionali", aggiungo nel tentativo di riaffermare il mio ruolo.

"Voglio illustrarle le mie capacità", aggiunge Scoscesi. Continua a mostrarsi sicuro di sé, sempre con quella voce che sembra provenire da qualcuno somaticamente ben diverso da quel tipetto che mi siede di fronte. Sembra una sorta di ventriloquo. È irritante. È destabilizzante. Quasi inquietante

"Faccia pure", replico a mia volta, con una irritazione che è ormai evidente. A me, almeno, è evidente: non so se sia così anche per mio interlocutore.

"Non mi ha chiesto capacità in cosa", prosegue il candidato, evidentemente soddisfatto di avermi colto in fallo.

"Capacità in cosa?", chiedo, provando ad essere ironico.

Mi accorgo che sto sudando.

"Lei sta sudando", subito mi fa notare Scoscesi.

"Si, sto sudando. E allora?", ribatto, arrabbiato ma anche un po' intimorito. È una situazione in cui non mi sono mai trovato, nemmeno quando io stesso ero un candidato, e che non immaginavo mai di dover affrontare.

"Allora, niente. Glielo facevo solo notare. Comunque rispondo alla domanda che non mi ha fatto: capacità di vedere il contrario delle cose. Non le cose al contrario. Non è la stessa cosa".

Mi viene da ridere. Mi limito a chiedere, più che altro per guadagnare tempo: "Di cosa sta parlando?".

"Perché, lei crede che non esista il contrario delle cose?", replica, senza rispondere alla mia domanda. Va peggio di prima, per me.


"Ma si rende conto di dove si trova? Capisce che questo è un colloquio di lavoro? Che lei è il candidato e io sono il selezionatore?", dico io. Sono in affanno. Nuoto controcorrente.

Scoscesi non risponde. Mi guarda come stupito di quel che dico. Come se fossi io a non accorgermi di quanto siano banali i miei quesiti e le mie affermazioni.

"Lei sa che un'azienda non sa che farsene di chi sa vedere il contrario delle cose?", insisto, con l'intento di metterlo con le spalle al muro e di porre fine a questa specie di farsa.

"E lei sa quante aziende falliscono perché non dispongono di chi sia in grado di vedere il contrario delle cose?", replica Ivano, per nulla disorientato dalla mia affermazione ed anzi sicuro e fiero della sua domanda. Come se sapesse che, così, è lui ad avermi messo nell'angolo.

In effetti sono in difficoltà. Anzi, mi sento completamente bloccato. Panico.

Mi chiedo se questo rossiccio occhialuto non sia una sorta di ispettore in incognito incaricato dall'azienda per monitorare i miei metodi di lavoro. Chissà, forse qualcuno si sarà lamentato di me. Oppure è una procedura di routine.

Intanto, mentre mi sto chiedendo quanto siano fondati i miei sospetti, Ivano prosegue:

"Si sta chiedendo come mai, se sono tanto capace, io sia qui per cercare di convincerla a farmi assumere e non siano le aziende a pregarmi di assumermi".

"Già...", mi limito a dire, con un fil di voce.


"A questo punto sarebbe meglio chiedersi chi sta selezionando chi, faremmo prima".

"Sta dicendo che sono io ad essere sotto osservazione?", replico, ritrovando la voce e la rabbia di poco fa.

"Proprio così. E se vuole sapere come la penso, mi sto convincendo che questo non sia il posto che fa per me. Sto perdendo tempo. Lei no, lei è pagato per stare qui, adesso.", continua Scoscesi. "Se hanno dato proprio a lei il compito di scegliere chi debba far parte dell'azienda e chi no ... beh, mi rivolgo altrove", conclude alzandosi. "Buona giornata", dice, poi esce dal mio ufficio con rapidità e disinvoltura, senza concedermi alcuna replica.

Mi alzo. Apro la porta che Scoscesi aveva diligentemente chiusa dietro di sé, butto uno sguardo nella sala d'attesa e vedo seduti altri due candidati, una donna e un uomo. Tesi, con lo sguardo fisso davanti a sé, alle prese con paure e speranze.

Mi dico che la giornata, per me, è conclusa. Comunico ai due che i colloqui sono rinviati all'indomani. Vanno via senza nemmeno salutare, evidentemente sollevati, più che delusi.

Rientro, chiudo la porta, mi seggo alla scrivania, mi preparo a scrivere all'Amministrazione una mail in cui annuncio la mia rinuncia all'incarico.


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