Dal “Perché …" a “In modo che …”: non è solo una questione di parole.
Alfonso Falanga, 31 marzo 2021.

"Il perché, insomma, è una vera trappola che ci trasciniamo dietro come retaggio di una cultura umanistica fondata sulla introspezione, sullo scavare a fondo e nel profondo. Dove non è che si antepone la spiegazione alla soluzione del dilemma bensì la stessa spiegazione, come accennato, è vista come soluzione".
Capita, a volte, di trovarsi in una
situazione di stallo: non si fa né un passo avanti né uno indietro. Chiamiamola
stagnazione o impasse o, più
semplicemente, blocco.
Accade nel privato, nel sociale, nella professione.
Succede al singolo così come ad una organizzazione. Riguarda, a volte, anche le aziende. E' il caso, ad esempio, del management che, in una fase critica, ha consapevolezza del problema, o dei suoi aspetti più evidenti, ma non ha alcuna idea su come risolverlo.
Allora ecco che ci si immerge nella comprensione delle sue origini, come se ciò, di per sé, bastasse. Come se l'individuazione del perché si traducesse, in automatico, nella soluzione del problema stesso.
Queste sono le occasioni in cui si passa da una riunione all'altra, da un briefing all'altro. Immediatamente dopo ci si sente pure soddisfatti. È comprensibile: parlando, accusando, giustificandosi, arrabbiandosi ci si alleggerisce di una quota del carico emotivo connesso al problema. Basta che trascorrano poche ore, però, e tutto ritorna come prima.
Il perché, insomma, è una vera trappola che ci trasciniamo dietro come retaggio di una cultura umanistica fondata sulla introspezione, sullo scavare a fondo e nel profondo. Dove non è che si antepone la spiegazione alla soluzione del dilemma bensì la stessa spiegazione, come accennato, è vista come soluzione.
Tutti alla ricerca del perché, dunque. Che si traduce, il più delle volte, nella ricerca del colpevole: la fonte umana dell'errore che ha generato il problema..
I limiti del "Perchè ..." quando si comunicano norme e direttive.
Il perché fa la sua comparsa anche quando si danno regole. È il caso del manager o del leader di un gruppo di lavoro che si protrae in lunghe spiegazioni del perché stia dando una direttiva e del perché sia necessario seguirla.
In tal caso i rischi sono molteplici:
- spreco di tempo ed energia;
- questa dispersione corrode l'efficacia della direttiva stessa;
- la spiegazione sposta la comunicazione dalla dimensione professionale a quella personale;
- la spiegazione diventa, parola dopo parola, una giustificazione. Non si definisce più la ragione d'essere della regola ma se ne giustifica l'esistenza e ci si giustifica per averla data;
- l'affermazione del perché è un modo di procedere in avanti mantenendo lo sguardo, però, rivolto al passato.
- Il perché, per lo più, porta a una reiterazione dello stesso concetto o argomento, con parole appena diverse, e ciò credendo, invece, che si stia approfondendo quel medesimo concetto o argomento.
Quindi? Che fare? Comunicare la regola e basta? Rischiando, in tal modo, di sfociare in inopportune forme di autoritarismo per non cadere nella compiacente giustificazione?

"A volte basta una semplice parola.
Semplice, si fa per dire".
E se provassimo a sostituire perché ... con in modo che ...? Cambierebbe qualcosa?
Facciamo un esempio assumendo come riferimento il leader che comunica al suo gruppo di venditori che, da oggi in poi, gli optional sono da proporre al cliente non come un in più, rispetto a cui vale la scelta si o no (per il venditore proporlo o non proporlo, per il cliente acquistarlo o rifiutarlo), bensì come parte integrante del piano commerciale.
Comunicazione fondata sul perché:
"Mi prendo appena dieci minuti per comunicarvi che da oggi l'optional va presentato al cliente come un aspetto del piano commerciale al pari degli altri. Insomma è tutto incluso. Questo perché abbiamo verificato che, parlarne alla fine della trattativa e presentandolo come qualcosa che si può accettare o rifiutare, il cliente lo scarta a priori o perché è stanco o perché non ha più tempo. Inoltre alla fine trattativa vi prende la paura di perdere il cliente e perciò non spingete come dovreste. Tutto chiaro? Se non ci sono domande, al lavoro".
Riformuliamo assumendo in modo che ...
"Mi prendo appena dieci minuti per comunicarvi che da oggi l'optional va presentato al cliente come un aspetto del piano commerciale al pari degli altri. Insomma è tutto incluso, in modo che non rischiamo che il cliente, a fine trattativa, lo rifiuti a priori per stanchezza o per mancanza di tempo ed evitiamo anche l'ansia, a fine trattativa, di perdere il cliente. Tutto chiaro? Se non ci sono domande al riguardo, al lavoro"..
Quali differenze? Vediamo un pò ...
-Si recuperano tempo e energie.
-La comunicazione è proiettata verso il futuro, mentre il perché evoca il passato.
-Si è centrati sulla soluzione e non sul problema, o non solo sul problema.
-Si evitano giudizi, con quel che si guadagna in termini di stati d'animo.
Nel complesso, si guadagna in efficacia ed efficienza della comunicazione e, dunque, della regola stessa.
Oltre a confermare l'autorevolezza del proprio ruolo di leader.
A volte basta una semplice parola.
Semplice, si fa per dire.