Pirandello

una, nessuna e centomila identità, quelle di Gengè Moscarda.

Alfonso Falanga, 2 luglio 2025


"Così, seguitando, sprofondai in quest'altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti al mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro", p. 39.
Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila (1926), Giunti, 2017.

Con Luigi Pirandello i concetti di cambiamento e di identità, così come li abbiamo fin qui pensati, subiscono una radicale messa in discussione. Di fatto, tutta l'opera dell'autore siciliano si concentra sulla distanza tra l'identità percepita e quella che risulta all'esterno: vale a dire, come l'individuo si rappresenta a se stesso e come appare agli altri.

Uno, nessuno e centomila è una delle opere in cui questo distacco meglio si palesa e lo fa così tanto da condurre il protagonista Vitangelo Moscarda (Gengè per la moglie) alla follia.

"Seguitavo a camminare, come vedete, con perfetta coscienza su la strada maestra della pazzia…", p. 118.

L'identità, in Pirandello, non è definita una volta per tutte. Non c'entra, qui, il fattore tempo: non è una questione di passato, presente e futuro. Si tratta di una frantumazione dell'identità personale in tante parti quanti sono coloro a cui quella stessa identità si relaziona, foss'anche in modo fugace. Basta uno sguardo, infatti, un minimo contatto fisico a generare una ulteriore identità che va ad aggiungersi alle altre e che, poi, cessa di esserci quando quell'incontro ha fine.

In effetti, a pensarci bene, non è esatto parlare di identità che si frantuma: si tratta, più che altro, di una identità che si compone attraverso le molteplici identità generate dal fatto di essere uno tra i tanti. Una composizione, o scomposizione, tanto capillare che l'individuo può immaginarsi dotato di un'unica, definita e definibile identità soltanto se collocato in una condizione di solitudine. Qualora, secondo Gengè, fosse possibile essere effettivamente soli…

"La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate […] La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi", p. 38.

Gengè, che non riesce a vivere nell'incoscienza che caratterizza la maggior parte dei suoi simili, giunge ad una condizione di vera disperazione quando gli diventa chiaro che, appunto, la solitudine non esiste o che, comunque, non è una condizione auspicabile: essere da soli non è fonte di ritrovata serenità né costituisce un'opportunità per rinfrancare la propria coscienza. Anzi, il protagonista ritiene che la coscienza non sia che la voce degli altri dentro di sé: pertanto, se gli altri non ci sono, egli non ha più coscienza. Non sa più dove volgere lo sguardo. Non sa più come interpretare il mondo. Senza gli altri, non c'è più coscienza. Non c'è più alcun riferimento.

"…perché dovetti riconoscere che nei miei occhi non 'era veramente una vista per me, da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri [] Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce; perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli", pp. 144-145

Così stando le cose, anche il concetto di cambiamento è privo di senso. Non c'è trasformazione, infatti, dal momento che non c'è alcuna sostanza che possa trasferirsi da una condizione A ad una condizione B secondo un percorso lineare.

O, in un'ottica del tutto opposta, è la stasi ad essere la condizione impossibile a verificarsi. Non esiste, infatti, un'identità statica: sussiste soltanto un movimento continuo di identità che si aggiungono una all'altra per poi sottrarsi l'una all'altra; un flusso-reflusso di identità intenso ed inesorabile, tanto che, come poc'anzi accennato, nemmeno la solitudine è in grado di interrompere.

"…Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto e via dicendo, pur avendo l'illusione anche lui, anzi lui specialmente, d'essere uno per tutti [] ma quell'uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel momento ha compiuto l'atto, spesso poco dopo è sparito del tutto…", p. 94.

Abbiamo accennato al rischio, da parte del protagonista, di scivolare nella follia. Rischio forte. Che, di fatto, si traduce in realtà. Una follia generata da molteplici cause: una, la consapevolezza di Gengè dell'impossibilità, sua e di qualsiasi essere umano, di darsi un'identità stabile e valevole per se stesso e per gli altri, una identità che lo definisca una volta per tutte e per tutti. Inoltre, la follia si alimenta attraverso l'immane sforzo di Gengè di afferrarle tutte, le sue identità. Di ricomporle in una sola, di identità. Impresa ardua.

Ecco che, allora, Gengè decide di compiere un gesto che dovrà contraddire questa sorta di legge di natura secondo cui non c'è modo di farsi riconoscere dagli altri per quel che si è effettivamente, così come è velleitario credere di poter conoscere gli altri per quel che effettivamente sono. Nello specifico, Gengè intende dimostrare che lui non è quel che gli altri ritengono che egli sia e che non sente di essere (un usuraio: così lo definiscono in paese, in quanto banchiere. Usuraio come suo padre, da cui ha ereditato la banca ).

"…un usurajo no, quell'usurajo che non ero mai stato per me, ora non volevo più essere neanche per gli altri", p. 159.

A questo scopo, agisce al contrario rispetto a come agisce di solito un usuraio: dona casa e soldi ad una persona bisognosa- un certo Marco di Dio-dopo, però, che la ha sfrattata da una abitazione sempre di sua proprietà.

Eppure, proprio quest'espressione di magnanimità si traduce in un atto che sancisce definitivamente, per gli altri, che egli è effettivamente pazzo.

È proprio quello che gli grida Marco appena comprende chi è il proprietario dell'appartamento di cui è entrato inaspettatamente in possesso. E gli fa eco la folla intera.

"…poi, con un arrangolìo di bestia, che pareva fatto di insieme di singhiozzi e di risa, mi saltò addosso, frenetico, e prese a gridarmi, non so se per esaltarmi o per uccidermi, sbattendomi contro al muro.

«Pazzo! Pazzo! Pazzo!».

Era lo stesso grido di tutta la folla lì davanti alla porta:

«Pazzo! Pazzo! Pazzo!».

Perché avevo voluto dimostrare, che potevo anche per gli altri, non essere quello che mi si credeva", p. 133.

La follia ha la meglio su Gengè: allo stesso tempo, proprio lo scivolare verso la pazzia favorisce in Gengè l'accettazione della sua condizione che è, poi, quella di ogni essere umano: non si è mai quello che pensano gli altri e quello che pensano gli altri ha più valore, in intensità e durata, di quello che effettivamente si è.

Dall'accettazione, o resa, alla soluzione il passo è breve: Gengè comprende che la libertà consiste nello svincolarsi da ogni concezione di sé e da ogni proprietà materiale: essere niente perché niente si possiede. Perdersi nel mondo, tra le cose, tra la natura. Darsi al mondo.


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