Philip Roth e la maledizione dello scrittore
ovvero i tormenti di Nathan Zuckerman
Alfonso Falanga, 12 marzo 2024

"Nathan è in scena in molteplici romanzi di Roth. Appare nella trilogia americana che include Pastorale americana (1997), Ho sposato un comunista (1998) e La macchia umana (2000). In queste opere la sua funzione è fondamentalmente quella di narrare le vicende che coinvolgono i protagonisti veri dei romanzi..."
Il
bivio della scelta: vivere o raccontare.
Il dilemma dello scrittore: trovarsi al bivio tra vivere e scrivere. Ovvero,
dover scegliere tra una dimensione animata da personaggi, per
quanto dotati di forte carica simbolica ed emotiva, e la realtà vera,
fatta di persone.
Il tema non è tra i più
originali in ambito narrativo. Già Sartre, ad esempio, avvertiva
attraverso il personaggio di Antoine Roquentin, quanto le due sfere confliggano
al punto che "Bisogna scegliere: o vivere o
raccontare" (cfr. J. P.
Sartre, La nausea, La nausée, 1938, tr. Bruno Fonzi, Einaudi, 2005).
È
questo il dilemma in cui si dibatte Nathan Zuckerman, personaggio creato da
Philip Roth e che fa da cassa da risonanza alle tematiche più sentite dallo
scrittore statunitense: l'ebraismo e il conflitto tra laicità e ortodossia, la
problematicità dei rapporti familiari, le gioie e dolori che, appunto, segnano
la vita di uno scrittore.
Nathan è in
scena in molteplici romanzi di Roth. Appare nella trilogia americana che
include Pastorale americana (1997), Ho sposato un comunista (1998) e La macchia umana (2000). In queste opere la sua funzione è
fondamentalmente quella di narrare le vicende che coinvolgono i protagonisti veri dei
romanzi: il passaggio dal successo alla disperazione di Seymour Levov (lo
"svedese") nella prima opera-con i pregi e i difetti del sistema
valoriale americano che fanno da sfondo-, il rapporto fortemente conflittuale
tra Ira Ringold e sua moglie Eva Frame nella seconda. Nel terzo libro,
Zuckerman testimonia il dramma di Coleman Silk che, da affermato e rispettato
accademico, viene ridotto alla condizione di emarginato (non più che una macchia umana)
dall'ipocrisia, dai pregiudizi e dalla violenza psicologica e verbale dei suoi
colleghi e della comunità accademica in genere. In tutte queste pagine il
lettore incontra un Nathan maturo anagraficamente e professionalmente, un uomo
sicuro di sé per quanto sempre disponibile al dubbio e alla riflessione,
dispensatore di buoni consigli, acuto osservatore degli eventi e dei caratteri
umani.
"Durante i loro lunghi dialoghi, Lonoff avverte Zuckerman delle trappole disseminate lungo il cammino di uno scrittore, quei buchi neri che si celano dietro l'ingannevole abbagliare del successo. Uno di questi tranelli, il più subdolo e letale, è la solitudine – materiale e spirituale- a cui il narratore si costringe attraverso quel dedicarsi giorno dopo giorno a storie e personaggi fatti di pura immaginazione e di sole parole".
La
trilogia di Zuckerman.
La sua evoluzione artistica è, invece, descritta nella
cosiddetta trilogia di Zuckerman, che
precede le opere appena citate: si inizia con Lo
scrittore fantasma (1979) per proseguire con Zuckerman
scatenato (1981) e finire con La
lezione di anatomia (1983).
I tre romanzi, nel loro
insieme, come accennato mettono in luce le principali tappe del percorso
artistico di Nathan evidenziandone gli intensi intrecci con la sua famiglia,
con la morale ebraica che la distingue e con il senso di appartenenza/non-appartenenza
ad essa da parte di Nathan.
L'avvertimento
inascoltato di Lonoff.
Lo scrittore fantasma è la narrazione
dell'incontro tra il protagonista e lo scrittore E. I. Lonoff- il suo idolo-
nel cui appartamento la permanenza di Zuckerman, a causa delle forti nevicate,
va oltre i tempi previsti. L'evento avrà conseguenze inaspettate: Nathan, infatti,
nell'occasione fa la conoscenza di una giovane donna, Amy Bellette- una sorta
di dignitosa concubina di Lonoff- che, alla fine, egli crede che sia Anna Frank
e di cui immagina la storia: Anna è sopravvissuta alla tragedia dell'Olocausto,
è fuggita negli Stati Uniti e qui, poi, ha assunto una nuova identità.
Durante i loro lunghi
dialoghi, Lonoff avverte Zuckerman delle trappole disseminate lungo il cammino
di uno scrittore, quei buchi neri che si celano dietro l'ingannevole abbagliare
del successo. Uno di questi tranelli, il più subdolo e letale, è la solitudine
– materiale e spirituale- a cui il narratore si costringe attraverso quel
dedicarsi giorno dopo giorno a storie e personaggi fatti di pura immaginazione
e di sole parole. Lonoff sta parlando proprio dei rischi che si corrono quando
si sceglie il raccontare al posto del vivere. Questo
monito emerge particolarmente in un frammento tratto da uno dei molteplici
dialoghi tra i due protagonisti:
"«Ero, immagino, professionalmente
innocente mio malgrado, ma non potevo smettere di asfissiarli parlando delle
ore passate sullo spazzaneve dopo quelle passate a tavolino; non era solo che
volevo convincere Lonoff del mio spirito puro e incorruttibile: il problema era
che volevo crederci io stesso» […] «Potrei vivere sempre così», annunciai (Nathan).
«Non ci provi», disse lui (Lonoff). «Se la sua vita è fatta di questo,
leggere, scrivere e guardare la neve, lei finirà come me. Trent'anni di
fantasia»", (P. Roth,
Lo scrittore fantasma, The Ghost Writer, 1979, tr. Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2002,
p. 25).
Alvin
Pepler: un perfetto esempio dei dolori dell'essere
uno scrittore di successo.
Zuckerman scatenato è un testo di appena 182
pagine: non moltissime, in effetti, eppure in grado di contenere tutta la
complessità delle tematiche privilegiate da Roth.
Qui iniziano a mostrarsi a
Zuckerman i primi dolori derivanti dal successo. La perdita dell'anonimato, per
dirne una: Nathan è ossessionato dalla gente che lo riconosce per strada e, più
ancora, da quei mitomani che, come per punirlo della sua notorietà e dei
privilegi che da essa derivano (l'invidia li porta a cogliere soltanto le gioie della
fama) lo rendono oggetto delle loro idiosincrasie, dei loro rancori mai sopiti,
della loro rabbia inespressa e corrosiva.
È il caso, ad esempio, di un
certo Alvin Pepler, che riversa su Zuckerman i suoi sfoghi contro il sistema
mediatico che, a suo dire, lo ha ingannato negandogli quanto gli aveva promesso
– un impiego da giornalista sportivo- in cambio, per esigenze di showbusiness,
del lasciarsi sconfiggere durante un noto telequiz.
Nathan diventa addirittura
bersaglio di intimidazioni che coinvolgono anche i suoi familiari quando riceve
telefonate da qualcuno che minaccia di rapirgli la madre (lui sospetta che sia
proprio Alvin).
"In questi momenti si afferma un ulteriore tema caro a Roth, ovvero l'identificazione tra lo scrittore e i suoi personaggi".
La
scomoda identificazione tra personaggio e autore.
Nelle stesse pagine emerge, in misura significativa, la
conflittualità tra lo scrittore e il suo ambiente domestico: in particolare,
tra Nathan e suo padre, il dottor Victor Zuckerman – apprezzato podologo- che
lo accusa aspramente di avere indebolito lo spessore morale e religioso della
sua famiglia e, conseguentemente, dell'intera comunità ebraica. Tale
riprovevole operazione sarebbe avvenuta, secondo Victor, proprio attraverso il
romanzo che ha reso famoso Zuckerman, la storia di un certo Gilbert Carnovsky,
personaggio diventato tanto popolare quanto il suo creatore (chi deve
la propria fama a chi?) e così assimilato
dai lettori a Nathan che spesso, in pubblico, lo scrittore è indicato come il
signor Carnovsky.
In questi momenti si
afferma un ulteriore tema caro a Roth, ovvero l'identificazione tra lo
scrittore e i suoi personaggi.
"Bastardo!".
Il rimprovero paterno raggiunge l'apice quando Victor è
sul letto di morte: proprio al figlio, che gli è accanto, il dottor Zuckerman
rivolge la sua ultima (letteralmente) parola, che per Nathan suona come una
condanna senza appello pur se pronunciata con un flebile filo di voce:
"«Bastardo»,
disse. Alludendo a chi? […] Ma quando
pronunciò la sua ultima parola, il dottor Zuckerman non stava guardando le
cartelle della sua corrispondenza, o in su, verso il volto del suo Dio
invisibile: no, guardava gli occhi di quell'apostata di suo figlio" (Philip Roth, Zuckerman Scatenato, Zuckerman
Unbound, 1981, tr. Vincenzo
Mantovani, Einaudi, 2014, p. 156).
La maledizione paterna è
rinforzata dalle affermazioni di suo fratello Henry, se possibile ancora più
dure e tanto dirette da fugare ogni dubbio di Nathan al riguardo:
"«Ha detto bastardo,
Nathan. Ti ha dato del bastardo».
«Cosa?».
Tutt'a un tratto, Henry era furioso e piangeva. «Perché
tu sei un bastardo. Un bastardo senza coscienza e senza cuore.
Cosa significa fedeltà, per te? Cosa significa responsabilità? Cosa significa
abnegazione, ritegno…Significa qualcosa? Per te ci si può sbarazzare di ogni
cosa! La moralità ebraica, la pazienza ebraica, la saggezza ebraica, le
famiglie ebree … Purché faccia ridere, per te tutto fa brodo […]. Per te
l'unica cosa che conta è divertirsi. Ma non è così per il resto di noi […] L'hai
ammazzato tu, Nathan […] Con quel libro. Certo che ti ha dato del bastardo!»", p. 176.
Un'altra
scomoda verità: il romanziere è sempre responsabile di ciò che scrive.
Le accuse paterne costringono Nathan ad elaborare una
ulteriore riflessione: fino a che punto- ammesso che ci sia, questo punto- un
libro può ritenersi un semplice contenitore di innocue parole tali perché che
si limitano a descrivere un mondo puramente fantastico. E quanto, invece,
quelle stesse parole generano una realtà fatta sì di immaginazione ma che, poi,
acquisisce vita propria e si intreccia con la quotidianità delle persone.
"Un libro, un'opera di fantasia rilegata tra due copertine, che produce una fantasia non scritta, inspiegabile e incontrovertibile invece di fare-stando a ciò che prometteva Aristotele all'università-quello che dovrebbe fare l'arte, cioè dotarci delle norme morali per arrivare a distinguere tra il bene e il male", (, p.160).
Il "bastardo" viene somatizzato: La lezione di anatomia.
Il
marchio di bastardo peserà
non solo sull'animo e la coscienza di Nathan ma anche sul suo corpo. O meglio,
il fardello che grava sulla sua coscienza, ad un certo punto, attraverso un
processo di banale-quanto
drammatica-somatizzazione, andrà ad opprimergli muscoli e ossa. Quel bastardo,
rinforzato dall'accusa di Henry, insomma si tramuta in dolore fisico, intenso e
debilitante: il rapporto tra colpa ed espiazione attraverso la sofferenza
fisica (altro che dolori metaforici dell'esser scrittori!) è il tema centrale
di La lezione di anatomia, il
romanzo che chiude la trilogia di Zuckerman.
"Eppure quella che aveva non sembrava una malattia che si
potesse prendere sul serio. C'era solo quel dolore: al collo, alle braccia e
alle spalle, un dolore che gli impediva di camminare per più di qualche isolato
e anche di stare fermo troppo a ungo nello stesso posto" (Philip Roth, La lezione di anatomia, The
Anatomy Lesson, 1983, tr.
Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2006, p. 4).
"Non era leucemia né lupus, né diabete, non era sclerosi multipla, né distrofia muscolare, e nemmeno artrite reumatoide: non era niente. Ma per niente Zuckerman stava perdendo la propria sicurezza, il proprio equilibrio mentale e la propria dignità", (p. 24).
Ritorna il bivio della scelta: la vita o la pagina?
Il male
oscuro che lo attanaglia costringe Nathan a fare
i conti con la responsabilità che ha come produttore di
parole nei riguardi dei suoi lettori e, in particolare, nei confronti della sua
famiglia e della comunità ebraica: una dimensione, quest'ultima, a cui egli
appartiene che lo voglia o no, che gli piaccia o meno.
In più, deve prendere
coscienza dei doveri che ha nei confronti di se stesso e fortemente connessi al
monito di Sartre: bisogna scegliere, o vivere o raccontare.
Nathan ha capito che lui ha
scelto la seconda opzione e lo ha fatto con innocente (ma non per questo
incolpevole) naturalezza: ha scelto la realtà immaginaria credendo, invece, di
calarsi nella vita vera.
"Credeva di aver scelto la vita, e invece
aveva scelto la pagina seguente. Mentre rubava il tempo per scrivere racconti,
non pensò mai di chiedersi cosa il tempo avrebbe potuto rubare a lui…Solo
gradualmente il perfezionarsi della ferrea volontà dello scrittore cominciò ad
apparirgli come un'evasione dall'esperienza, e i mezzi indispensabili per
liberare la fantasia, per esporre, svelare e inventare la vita, come la forma
di carcerazione più severa ", (p. 145).
La sola pagina ormai ha
Nathan sta stretta, tanto da portarlo a chiedersi se proprio la malattia non
possa essere la soluzione al suo dilemma.
"E se questo dolore stesse offrendo a
Zuckerman l'occasione migliore che aveva mai avuto, una via d'uscita dal luogo
dove non sarebbe mai dovuto entrare? Il diritto di essere stupido. Il diritto
di essere pigro. Il diritto di essere nulla e nessuno. Invece di solitudine,
compagni; invece di silenzio, voci; invece d progetti, ragazzate; invece di
altri venti, trenta, quarant'anni di instancabile e problematica
concentrazione, un avvenire di diversità, di ozio, di abbandono", (p. 31).
"Nathan riesce bene in questa farsa, che, in effetti, farsa non è: egli scopre che sganciarsi dal suo nome, dal suo lavoro e dalla complessità della sua storia personale diventa una sorta di terapia sia per la mente che per il corpo. Sono proprio i momenti in cui è Milton Appel che i suoi dolori gli concedono un minimo di tregua, quel sollievo che alcun medicinale e nessun dottore fino ad allora gli ha reso possibili".
Chi è Milton Appel?
La
malattia costringe Nathan, da un lato, a concentrarsi su se stesso, su aspetti
pratici della sua vita (camminare, alzarsi dalla poltrona, mettersi a letto,
bere, mangiare), dunque su quell'insieme di atti quotidiani necessario alla
sopravvivenza. Si tratta di gesti semplici, automatici, banali ma che i suoi
dolori hanno espulso violentemente dalla dimensione dell'ordinarietà.
Dall'altro, quegli stessi dolori lo obbligano a staccarsi da se stesso, dalla
sua vita di scrittore affermato, addirittura dal suo nome: in alcune occasioni,
con gente incontrata per caso, Nathan si finge un'altra persona, con un altro
nome e che svolge un altro mestiere. In aereo, ad esempio, con il suo vicino di
posto, si presenta come l'editore pornografo Milton Appel. E questo scambio di
persona prosegue anche con Ricky, la donna che gli fa autista e che se per
Milton rappresenta una antagonista (Ricky non ha timori nel dichiarare prima
direttamente e poi, stanca delle vanterie del passeggero, esplicitamente che la
pornografia la disgusta) per Nathan quella stessa donna, con le sue aspirazioni
e la sua visione estremamente pratica della realtà, costituisce uno dei
migliori esempi di quella vita vera a cui egli aspira.
Nathan riesce bene in questa
farsa, che, in effetti, farsa non è: egli scopre che sganciarsi dal suo nome,
dal suo lavoro e dalla complessità della sua storia personale diventa una sorta
di terapia sia per la mente che per il corpo. Sono proprio i momenti in cui è Milton
Appel che i suoi dolori gli concedono un minimo di tregua, quel sollievo che
alcun medicinale e nessun dottore fino ad allora gli ha reso possibili.
La cura: uscire da se stesso.
Nathan
vuole correre ai ripari prima che sia troppo tardi, prima che il narrare e il
dolore che ne è conseguito lo escludano totalmente e definitivamente dal mondo.
Comprende che può farlo solo scegliendo il vivere il
che significa non solo stare tra la gente, invece che al chiuso di una camera
tutto preso dallo scrivere, ma fare qualcosa di cui si possano vedere gli
effetti concreti. Nathan non trova di meglio che iscriversi alla facoltà di
medicina nonostante la sua età alquanto avanzata, almeno rispetto a quella di
una matricola universitaria. Pur cosciente di questo limite – e di altri- egli
è ormai deciso nella sua scelta: la professione di medico gli si mostra come la
strada migliore per uscire totalmente e definitivamente dalla trappola che egli
stesso, poco a poco, si è creato.
Nathan ha consapevolezza che
la soluzione al suo male oscuro nulla ha a che fare con terapie psicologiche e
farmacologiche, né con collari miracolosi o altri aggeggi che promettono tutto
e mantengono niente. Egli ormai sa bene che, per guarire, non può fare altro
che uscire da se stesso: dalla sua vita, dal suo passato.
La cura, insomma, consiste
nel dare senso- un nuovo senso- alla sua esistenza. La malattia è allo stesso
tempo la conseguenza della mancanza di quel senso e la strada attraverso cui
egli potrà trovarlo.
"Cosa impedisce la mia guarigione, quello
che faccio o quello che non faccio? Cosa vuole da me questa malattia? O sono io
che voglio qualcosa da lei? L'interrogatorio non aveva alcuno scopo pratico,
eppure l'unico motivo della sua esistenza era questa continua ricerca del
significato mancante. Se avesse tenuto un diario del dolore, l'unica voce
sarebbe stata: io", ( p. 186).
Il paradosso come soluzione.
Come accade a volte nella vita, la soluzione a dilemmi che appaiono irrisolvibili è nascosta in un paradosso. Accoglierlo, senza sforzarsi di scioglierne la complessità, può condurre lì dove si era persa ogni speranza di approdare.
Forse, non è necessario scegliere tra vivere e raccontare.
Forse, la scelta vera è impegnarsi nell' integrare la vita con la narrazione, e viceversa.
Forse, la soluzione al
dilemma è la consapevolezza di dove si è in ogni momento della quotidianità:
una consapevolezza costante, profonda quanto capillare, che non concede spazio
all'ipocrisia, all'inganno di se stessi, al facile ripiego su quegli alibi
tanto cari ai pigri nel corpo e, ancor più, nella mente: non vale la penavivere (e poi vivono fino a novant'anni), l'inferno sono gli altri ( e poi amano circondarsi, di altri), che
ci faccio io in questo mondo (e poi mostrano di saper bene cosa fare, in questo
mondo).
Si tratta di una
consapevolezza a volte percepita come un fardello. E lo è. Ma è un fardello
necessario.
Così è (potrebbe essere)
anche per Nathan Zuckerman.