
Albert Camus, Lo straniero, L'étranger, 1942, tr. Sergio Claudio Perroni, Bompiani, 2025.
"Gli uomini erano tutti magrissimi e avevano il bastone. A colpirmi dei loro volti era che non vedevo gli occhi ma solo una luce smorta in un nido di rughe. Dopo essersi seduti hanno cominciato quasi tutti a guardarmi, scrollando il capo imbarazzati, le labbra risucchiate dalle bocche sdentate, e non riuscivo a capire se mi salutassero o fosse un tic. Ma credo che mi salutassero. È stato a quel punto che mi sono accorto di come fossero tutti seduti di fronte a me a dondolare la testa, intorno al custode. Per un istante ho avuto la ridicola sensazione che fossero lì per giudicarmi", p. 26.
"Grosse lacrime di stizza e sudore correvano sulle sue guance. Ma, a causa delle rughe, non cadevano. Si spandevano, si univano e creavano un velo d'acqua sul viso distrutto", p. 34.
"Ho sentito i miei occhi stancarsi a furia di guardare i marciapiedi con il loro carico di persone e di luci. I lampioni facevano luccicare il selciato umido e i tram, a intervalli regolari, lambivano con i loro riflessi una chioma smagliante, un sorriso, un braccialetto d'argento. Poco dopo, con i tram più rari e il buio più fitto sopra alberi e lampioni, il quartiere si è impercettibilmente svuotato, e il primo gatto ha attraversato adagio la strada di nuovo deserta. Allora ho pensato che bisognava cenare", p. 42.
"C'era sempre quel bagliore rosso. Sulla sabbia, il mare boccheggiava col respiro lesto e affannato delle piccole onde. Camminavo lentamente verso le rocce e sentivo la fronte gonfiarsi sotto il sole. Tutto quel caldo mi pesava addosso e si opponeva al mio avanzare. E ogni volta che sentivo sul viso il suo enorme soffio rovente stringevo i denti, chiudevo i pugni dentro le tasche dei pantaloni, mi tendevo tutto per vincere il sole e quell'ebrezza opaca che mi rovesciava addosso. A ogni dardo di luce sprigionato dalla sabbia, da una conchiglia scolorita o da un coccio di vetro, le mie mascelle si contraevano. Ho camminato a lungo", p. 82.
"Allora ho sparato altre quattro volte su un corpo inerte nel quale le pallottole si conficcavano senza lasciare traccia. Ed è come se bussassi quattro volte alle porte dell'infelicità", p. 85.
"È andato via con l'aria seccata. Avrei voluto trattenerlo, spiegargli che desideravo la sua simpatia, e non per essere difeso meglio, bensì, per così dire, naturalmente. Soprattutto, mi rendevo conto che lo mettevo a disagio. Non mi capiva e ce l'aveva un po' con me. Desideravo convincerlo che ero come tutti, assolutamente come tutti. Ma questo, in fondo, non era molto utile, e vi ho rinunciato per pigrizia", p. 92.
"Appena sono entrato, il rumore delle voci che rimbalzavano sulle grandi pareti spoglie della sala e la luce cruda che dal cielo pioveva sui vetri e ricadeva nella sala mi hanno provocato una specie di stordimento", pp. 100-101.
"Dall'oscurità della mia prigione mobile ho ritrovato a uno a uno, come dal fondo della mia stanchezza, tutti i suoni familiari di una città che amavo e di un'ora in cui mi capitava di sentirmi contento. Il richiamo degli strilloni nell'aria già distesa, gli ultimi uccelli nei giardini, il grido dei venditori di sandwich, il lamento dei tram sui tornanti della città alta e quel rumore del cielo prima che la notte si rovesci sul porto: tutto ciò ricomponeva per me un itinerario da cieco che mi era ben noto prima di entrare in prigione. Si, era l'ora in cui tanto tempo fa mi sentivo contento", pp. 127-128.
"Non so quante volte mi sia chiesto se esistano casi di condannati a morte scampati al meccanismo implacabile, dileguati prima dell'esecuzione, sfuggiti ai cordoni degli agenti. E ogni volta mi rimproveravo di non aver prestato attenzione ai racconti di esecuzioni capitali. Bisognerebbe sempre interessarsi a queste cose. Non si sa mai cosa possa capitare", p.141.
"La cosa importante era una possibilità di evasione, un balzo fuori dal rito implacabile, una folle corsa che offrisse tutte le possibilità della speranza. La speranza, ovviamente, era di essere abbattuti all'angolo della strada, in piena corsa, e con un colpo secco", p. 142.
"Gli ho detto che non sapevo cosa fosse un peccato. Mi avevano solo comunicato che ero un colpevole. Ero colpevole, pagavo, non mi si poteva chiedere niente di più", p. 152.
"Quasi che quella grande rabbia mi avesse purgato del male, svuotato della speranza, di fronte a quella notte carica di segni e di stelle mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo. Nel riconoscerlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito di essere felice, di esserlo ancora", p. 157.