I. Fare impresa: luoghi comuni e realtà


Ricordo bene il mio post-diploma: si era a metà degli anni '70.

Il contesto socioculturale, politico ed economico, per quanto conflittuale fosse, comunque risultava in grado di offrire discrete opportunità di inserimento lavorativo a chi, come me, era giunto al termine di un percorso di studi tecnico-industriale. Si navigava ancora sulla scia del miracolo economico italiano del secondo dopoguerra e, per noi appena diciottenni (attuali boomer, anche se il famoso boom economico nelle famiglie di tanti di noi mai arrivò), il futuro-in tutti i suoi molteplici aspetti- era ancora una prospettiva legittima: anzi, pensare al nostro futuro era normale, doveroso. Tutto si faceva in vista di un futuro inteso come opportunità e non, come purtroppo accade oggi, vissuto alla stregua di una minaccia. O, peggio, come un'utopia, ovvero qualcosa di appena appena pensabile ma mai realizzabile. Che mai, dati i cataclismi climatici e politico-economico-sociali a cui stiamo assistendo, sarà declinabile in realtà.[1]

Allo stesso tempo, erano gli anni in cui la tecnologia informatica cominciava ad orientare in misura significativa le attività produttive fino a diventare, da lì a poco, essa stessa prodotto autonomo.

Le occasioni di impiego, perciò, non mancavano: come al solito meno nel sud del paese che al nord, ma ce n'erano in misura sufficiente da rendere il fare impresa una libera scelta rispetto al posto fisso.

Ricordo altrettanto bene quando, passato poco più che un decennio, per molti neodiplomati e neolaureati il lavoro autonomo divenne quasi un obbligo (particolarmente da noi al sud): aprire una partita IVA, mettersi in proprio come ditta individuale o in una forma societaria con amici o parenti era la sola alternativa alla disoccupazione.

L'epoca del posto fisso era giunta al suo epilogo e diventava inevitabile creare un proprio business, ovvero intraprendere un'attività commerciale e produttiva attraverso il superamento di una serie di step così sintetizzabile: definizione del settore economico da assumere come riferimento (non sempre era quello più affine ai propri studi e alle proprie conoscenze ma, in molti casi, quello più abbordabile economicamente, ovvero che non richiedeva chissà quali investimenti economici), strutturazione dell'attività in tutti i suoi aspetti organizzativi, promuoverla, costituire un team operativo-se non si agiva da singolo professionista- e gestirlo in funzione dell'obiettivo aziendale.

In poche parole, ci si improvvisava imprenditori, manager, leader.



[1] Non è da trascurare l'elemento socioculturale tipico dei nostri tempi, ovvero quell'essere schiacciati sul presente, come dicono gli studiosi, che porta da un lato alla perdita della memoria storica e, dall'altro, a non considerare il futuro come normale dimensione temporale. Il presentismo determina, così, la percezione del passato come un asfissiante limite e del futuro come incognita. E l'incognita o sollecita uno spirito combattivo (il futuro come sfida, e nemmeno va bene) o genera paura, rassegnazione, rinuncia.




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