"Figure immaginarie, quelle di Dostoevskij, che dunque, per contrasto, ci rinviano al nostro accontentarci, a volte, della mediocrità, delle mezze porzioni, dell'approssimazione, della semplificazione di fatti e concetti, invece, complessi. Che ci rimandano al nostro essere pronti a giustificarci, a non riconoscere la responsabilità delle nostre azioni, a non affermare, quando necessario, «sì, ho sbagliato, sono io il responsabile, non sono competente, non sono capace, ho bisogno di imparare …»"
Ogni rilettura di Dostoevskij è una lettura originale. Ogni volta
emergono particolari nuovi trascurati in passato. Ogni volta si guadagnano
nuovi spunti di riflessione riguardo al legame tra quei personaggi descritti
minuziosamente e sapientemente- e ossessivamente- nei dettagli fisici e
psicologici (particolarmente in questi ultimi) e i nostri modelli di pensiero e
di comportamento. In ogni caso, tutte quelle figure immaginarie e, allo stesso
tempo, estremamente realistiche, pur nella loro diversità presentano una
costante: non
attirano le nostre simpatie. E non perché non riconosciamo la loro grandezza,
la loro profondità psicologica, la moltitudine di significati intrapsichici che
racchiudono, la loro forte valenza simbolica. Anzi, li troviamo anti-patici
proprio perché immensi. Proprio perché con la loro immensità costringono al
pensiero, alla riflessione, al dubbio: sollecitano il desiderio (bisogno) di
saperne di più. Personaggi ossessivi e ossessionati dalle loro stesse idee,
vissute come destino ineluttabile, che rischiano di rendere altrettanto
ossessivo e ossessionato il lettore. Risultano anti-patici proprio perché portatori di idee forti espresse con una convinzione che sfocia a
volte nel fanatismo. Personaggi che hanno carattere, altroché,
pur se lacerati da insicurezze e dubbi: anche il dubbio diventa, in
loro, un'idea fissa. E come accade nella vita, le persone di carattere attirano sì la nostra attenzione e la
nostra ammirazione (e invidia) ma non le nostre simpatie. Mettono a disagio.
Sollecitano la coscienza delle nostre debolezze, delle nostre rinunce alla
coerenza, rinunce che a volte sono inevitabili ma in altre sono il colpevole esito di una pigrizia mentale, del
consapevole rifiuto di pensare, di approfondire, del ricorrere alle
scorciatoie, alle spiegazioni più a portata di mano tanto consolatorie quanto
fuorvianti e ciò proprio nei momenti in cui più sarebbe necessario il dubbio,
il ricorso allo spirito critico, l'approfondimento, la sospensione del
giudizio. O, in ultima analisi, l'astenersi, dichiarando genuinamente la
propria incompetenza. Figure immaginarie, quelle di Dostoevskij, che dunque, per
contrasto, ci rinviano al nostro accontentarci, a volte, della mediocrità,
delle mezze porzioni, dell'approssimazione, della semplificazione di fatti e
concetti, invece, complessi. Che ci rimandano al nostro essere pronti a
giustificarci, a non riconoscere la responsabilità delle nostre azioni, a non
affermare, quando necessario, «sì, ho sbagliato, sono io il responsabile,
non sono competente, non sono capace, ho bisogno di imparare …» .
Come potrebbero risultarci simpatici, ad esempio, Raskòl'nikov o
Kirillov con la loro totale accettazione delle proprie responsabilità (Raskòl'nikov
per un po' prova a svincolarsene, poi si arrende e accetta che ha fatto quel
che ha fatto semplicemente perché voleva
farlo, perché preda dell'ossessione di liberare l'umanità da una espressione
del male puro incarnata nella usuraia Alëna Ivanovna) (la
povera Lizaveta Ivanovna ci rimette anche lei la vita in quanto casuale
testimone del delitto)? O Kirillov, che si suicida per mostrare tutto il libero
arbitrio di cui è dotato l'uomo e, dunque, egli stesso e perciò irrimediabilmente
responsabile delle proprie azioni? "«Io
sono obbligato a uccidermi, perché il momento più alto del mio arbitrio è
uccidere me stesso». «Ma non
siete mica il solo a uccidervi: ci sono molti suicidi». «Con una ragione. Ma senza alcuna ragione, ma solo per l'arbitrio, sono
l'unico»", (Fëdor Dostoevskij, I demoni, 1873, tr. Rinaldo
Küfferle, Garzanti, 1973, p. 657). O Dimitri/Mitja Karamazov che accoglie la condanna per l'omicidio
paterno-per cui è innocente-in quanto si sente comunque colpevole verso
l'umanità intera? Responsabile a prescindere, solo perché uomo? "E
sono tanti, sono centinaia, e noi siamo tutti colpevoli, rispondiamo tutti di
loro! […] E io andrò là per tutti, perché bisogna pure che qualcuno vada là per
tutti. Io non ho ucciso mio padre, ma devo andare. Accetto!", (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Brat'ja
Karamazovy, 1879-1880, tr. Pina Maiani, Sansoni, 1969, pp. 821-822). E il principe Mitja, l'idiota, ostinatamente
buono e accomodante nonostante l'ostilità che gli manifesta il suo ambiente
proprio perché buono a tutti i costi? Che dire poi di Aleksandrč, l'uxoricida protagonista di Memorie da una casa di morti, che sconta la sua condanna
ai lavori forzati senza mai cercare giustificazioni al suo gesto, nemmeno nei
momenti di maggiore disperazione e rabbia? Forse, il personaggio più umano è Aleksej, protagonista de Il giocatore, che si lascia andare definitivamente alla
sua debolezza rinviando a un domani di là da venire, con una ignavia tutta
umana, il suo cambiamento. L'intera opera dostoevskiana è dunque caratterizzata da un
profondo imperativo etico: l'ineluttabile rapporto tra le nostre azioni e le
loro conseguenze materiali e morali. L'uomo, afferma Dostoevskij, non ha modo
di sfuggire a questa responsabilità. Nemmeno l'esistenza di Dio, per i
credenti, è sufficiente ad attenuarla. Anzi, in quel caso, si è responsabili
due volte.
È un destino inevitabile, insomma. Che si agisca o non agisca.
Anche l'inazione, infatti, ha le sue conseguenze. Anche l'ignavo, il pauroso,
l'eternamente titubante (io, qui, ci collocherei Alëša Karamazov) ha la sua buona dose di
responsabilità. Anche più rispetto a chi, almeno, agisce. L'inazione, poi, è
comunque un agire. È in quest'ottica che oggi Dostoevskij andrebbe letto e riletto,
oggi che assistiamo, in vari campi, ad una fuga dalle proprie responsabilità,
oggi che al massimo ci si limita a chiedereScusa anche se si è commesso un atto aberrante che
non sfigurerebbe accanto a quello di Raskòl'nikov. Oggi, che si è dimenticata
una regola base delle relazioni umane e cioè che ad ogni nostra azione
corrisponde una reazione di cui siamo in buona misura responsabili, e ciò
particolarmente quando quell'azione consiste nell'astenersi dal pensare e
dall'agire di conseguenza. Oggi, che la prospettiva in cui si agisce o
non agisce è quella di un presente che non contempla il futuro se non come
ipotesi, invece che come orizzonte sempre più vicino. Un orizzonte che ci
attende, che ci piaccia o no. Che lo scorgiamo oppure no. Proprio come la condanna attende, al pari di un destino,
Raskòl'nikov.